REINCANTAMENTO - Open source and work-in-progress meditation on magic and technology

REINCANTAMENTO


✦ Open source and work-in-progress meditation on magic and technology

Il Design dell’illusione






Che cos’è il design nel XXI secolo? Nell’epoca in cui tutti sono creativi e ogni prodotto è unico, dove si colloca questa disciplina? 

Un’indagine sui rapporti tra uomo e tecnologia deve per forza passare dall’analisi di una delle dimensioni centrali del prodotto tecnologico contemporaneo: il design. Seguendo Bernard Stiegler, consideriamo le tecnologie digitali come tecniche di scrittura del sé: attraverso di esse, tratti fondamentali del carattere e della personalità umana vengono modellati. Progettare dispositivi per la liberazione potrebbe quindi essere individuato preliminarmente come l’obiettivo del design per la nostra epoca.

Ma che cos’è il design nel XXI secolo? Nell’epoca in cui tutti sono creativi e ogni prodotto è unico, dove si colloca questa disciplina? E quale relazione intrattiene con il mondo della tecnologia? Nei Paesi Bassi c’è chi ha voluto provare a rispondere a queste domande. L’Amsterdam Design Manifesto è un libricino di circa 50 pagine, un tripudio di esperimenti tipografici e slogan programmatici. Il manifesto è frutto di una collaborazione tra il graphic designer Mieke Gerritzen e il teorico dei media Geert Lovink, acquistabile fisicamente presso il Droog Store nella capitale olandese. Partiamo da Amsterdam per il nostro viaggio nel design radicale.

Il design oggi: design dell’illusione


Per il designer ambizioso è il momento di fare il passo successivo: progettare il futuro come relazione collettiva in sintonia con la vita”.

L’Amsterdam Design Manifesto è un testo dada, ricco di provocazioni e slogan diretti soprattutto all’industria del design e alle sue propagazioni olandesi. Le tesi del Manifesto partono da un punto chiave: il design è ovunque. Nella società digitale, il design si è propagato tra i beni di consumo: mentre negli anni 50 l’opposizione tra beni di massa e oggetti di design era evidente, oggi ogni oggetto di consumo è un piccolo artefatto di design. Ikea ed H&M vengono indicate come gli esempi paradigmatici di una tale concezione: le due multinazionali svedesi producono e vendono in massa ma fanno il possibile per mantenere una patina e un’aura di unicità intorno ai loro oggetti, come se si trattasse di pezzi firmati. Non a caso entrambe le multinazionali hanno collaborato frequentemente con artisti e designer: da Virgil Abloh a Karl Lagerfeld, i prodotti di massa sembrano opere di design pensate per le esigenze di ogni specifico consumatore. ‹L’azienda diventa calda e personale, permeando le nostre attività quotidiane e le nostre identità individuali. In questo senso, IKEA ha arredato le stazioni della metropolitana di Parigi con i familiari divani Klippan, senza sottolinearne il loro logo›. Il design contemporaneo, nella diagnosi degli autori del manifesto, si è dissolto in un’aura che avvolge i nostri beni di consumo.
Il design è un incantesimo. Il design diventa un canto, un mantra, un’invocazione sparsa attraverso le discipline nella speranza che faccia la sua magia. La tecnologia del design si sforza di controllare la realizzazione e il funzionamento dei sistemi e delle pratiche tecniche

Lovink e Gerritzen ci presentano una sorta di ‹falsa coscienza› del designer: quando il design entra a far parte della standardizzazione del mondo delle merci, il valore della sua disciplina inizia a tramontare. Il compito del design diventa l’abbellimento delle merci, la creazione di un valore ‹unico› e di un aspetto convincente. Lentamente, il design diventa Design Thinking, una strategia di management della produzione e del capitale umano. Il pensiero design-oriented è integrato nei processi del capitalismo cognitivo e creativo: non è un caso che cercando su Youtube ‹design thinking› i primi risultati provengano da IBM o da Google.
[Il design] Allo stesso tempo, ha ampliato radicalmente il suo campo d’azione, diventando olistico e persino curativo. Il Design Thinking è visto come un modo per risolvere ‘creativamente’ i problemi mettendo gli esseri umani al centro della scena come ‘utenti’. Il design, nel frattempo, si è allontanato per un bel po’ di tempo dalle applicazioni concrete negli oggetti e nell’industria verso risultati immateriali e virtuali. […] Il Design Thinking ne è un esempio. Il Design Thinking non riguarda il design, ma una gestione impoverita dell’estetica, una pratica manageriale dell’estetica.

‹Una pratica manageriale dell’estetica›: a questo si riduce la falsa coscienza del designer. E dove trova casa il falso designer? Naturalmente, nella Silicon Valley. Il Manifesto lo dice a chiare lettere: la visione del design oggi si esprime in tre parole ‘Designed in California’: ‹Qui entriamo in una neverland a tinte pastello […] Le cose vanno sempre meglio. La passione per il design si limita agli effetti sociali delle nuove tecnologie in un contesto orientato al processo›.

A cosa serve tutto questo? Perché si rendono necessari processi di controllo dell’estetica, del design e dell’interfaccia? Il design è un incantesimo: così esordisce il manifesto. Ma perché il capitalismo tecnologico ha bisogno di incantarci? Cosa si nasconde dietro la facciata color pastello e i gradienti delle icone delle app? Un modello di business, naturalmente. Un sistema di estrazione, organizzazione e valorizzazione dei dati: un sistema costantemente alimentato dai nostri like, dalle nostre foto, dai nostri ‘parteciperò’ eppure così fatalmente invisibile agli occhi di centinaia di migliaia di utenti. Interfacce e meccanismi sono frutto del lavoro di una classe di programmatori e designer che le ha progettate con la consapevolezza di ciò che stava facendo. Queste scelte sono implicate by design: nel modo in cui certi sistemi vengono costruiti sono implicite le loro conseguenze negative. Cerchiamo di vederne un esempio.

In un saggio recente, Addiction by Design: Machine Gambling in Las Vegas (noto in Italia come Architetture dell’azzardo) Natasha Dow Schüll indaga proprio l’aspetto architettonico della dipendenza da gioco nei casinò. Secondo l’autrice, l’ambiente dei casinò e il design delle slot machine inducono volontariamente il giocatore allo stato patologico: le macchinette distribuiscono maggiormente le piccole vincite piuttosto che grandi montepremi proprio per invogliare l’utente a continuare a giocare. Un meccanismo simile governa le pagine dei nostri social media e giochi online preferiti, rendendoci sempre più dipendenti e coinvolti. Il ricercatore Urbano Reviglio indaga proprio come certe tecniche vengano esportate nel mondo dei social network:
I compulsion loops si trovano già in una vasta gamma di social media e soprattutto nei giochi online (Deibert, 2019). Le ricerche suggeriscono che tali loop possono funzionare tramite ‘rinforzi a tasso variabile’, in cui le ricompense vengono erogate in modo imprevedibile. Questa imprevedibilità influenza i percorsi della dopamina nel cervello in modi che ingrandiscono le ricompense. Inoltre, le sfaccettature del design innescano intenzionalmente i flussi di dopamina o altri sbalzi emotivi, stimolano il concorso di popolarità o gli obblighi sociali impliciti (Kidron et al., 2018) – utilizzano tutta una serie di hackeraggi cerebrali aggiuntivi, probabilmente molti dei quali non sono nemmeno noti al pubblico. Tra quelli conosciuti, l’indignazione morale può essere sfruttata per aumentare l’impegno. I ricercatori di psicologia della New York University hanno scoperto che ogni parola di indignazione morale aggiunta a un tweet aumenta il tasso di retweet del 17%. A volte, gli utenti possono anche essere catturati in una spirale di contenuti sempre più estremi e cospiratori – noto anche come ‘effetto tana del coniglio’.

I compulsion loop sono alla base di questa logica: inizialmente compiamo un’azione (postare una foto) aspettandoci una ricompensa (like, cuori, retweet), quando la ricompensa arriva l’utente è sempre più invogliato a fare ciò che è necessario per riceverla (postare un’altra foto). Questo genere di loop comportamentale funziona a livello biochimico tramite il rilascio di dopamina, un ormone e neurotrasmettitore legato alla percezione del piacere. I social media hanno bisogno della nostra attenzione per crescere e per questa ragione sfruttano meccanismi come i compulsion loop per non farci smettere di scrollare. Come recitava un poster dell’Atelier Populaire nel maggio 68: ‹IO, TU, NOI PARTECIPIAMO MA LORO CI GUADAGNANO›.

La strutturazione stessa dei social network si articola secondo protocolli molto precisi che sono frutto di scelte tecniche, di progettazione e design che potevano seguire logiche diverse e opposte. Un articolo di WIRED del 2018 spiegava proprio questo: i presunti abusi delle piattaforme digitali, dalla propaganda ISIS su Twitter alla diffusione di notizie false durante le elezioni del 2016, non sono affatto abusi quanto usi regolari e previsti dagli stessi sviluppatori. Non c’è bisogno di hackerare Facebook o di sfruttare particolari glitch per diffondere leggende metropolitane dal sottofondo razzista, basta utilizzare il meccanismo di microtargeting progettato dall’azienda di Palo Alto.

Proviamo a immaginare allora un social network che tramite la sua stessa interfaccia inviti alla collaborazione, all’attenzione prolungata, al ricordare anche l’importanza del mondo offline. Proviamo a immaginare e a progettare un social network che non si mantenga in vita secondo un modello di business che estrae e valorizza dati per poi scambiarli al miglior offerente. Questo lavoro immaginativo e progettuale potrebbe essere il lavoro del design nel XXI secolo: un corpo a corpo con gli algoritmi, un lavoro duplice di disvelamento e reincantamento.

Il design a venire: design dello svelamento


Dobbiamo progettare per la libertà, una libertà che mina attivamente le pressioni tecnologiche per condurre una vita prevedibile. Se questo non avviene, potremmo ritrovarci a vivere in un regime di credito sociale. Benvenuti nella società di Minority Report, una società in cui la prevenzione della deviazione è già stata interiorizzata in modo tale che la previsione non è più necessaria.
Quale speranza allora per il design? In che modo salvare una disciplina che pare condannata a fungere da lubrificante dei processi di produzione e consumo? L’Amsterdam Design Manifesto abbozza la visione di un design critico e consapevole, impegnato in un lavoro duplice: disvelare i principi progettuali dietro agli arcani tecnologici di oggi e progettare in maniera speculativa il futuro.

Il design a venire subisce un’inversione ottica rispetto a quel design della ‘falsa coscienza’ che abbiamo descritto poco sopra. Invece di celare l’estrattivismo dei dati attraverso la creazione di belle interfacce colorate, il designer progetta gli strumenti che ci servono per visualizzare, e quindi comprendere, questi processi.
Un altro esempio della nuova voglia di artigianato è l’hacking del design degli oggetti tecnicamente complessi che ci circondano. Dagli smartphone agli orologi Apple, dagli smart key finders agli assistenti digitali, tutti i gadget vengono sezionati per sondare criticamente il loro design.

Aprire la scatola nera della tecnologia tramite la progettazione di nuovi tools. Altro slogan del Manifesto: LA FORMA SEGUE IL CODICE. L’invenzione di nuove forme deve allora per forza passare dalla comprensione di un nuovo codice: da qui passa la lotta alla distrazione organizzata. ‹Designer, scoprite gli algoritmi! La strategia radicale dei designer è quella di progettare la scomparsa. Questa è la strana contraddizione che i designer con sensibilità visiva devono ora affrontare: come progettare l’invisibile? Ciò che va oltre l’ispezione? Progettare il presente computazionale richiede di progettare l’incomprensibile›. È importante sottolineare la questione dell’incomprensibilità: il rapporto di tante persone con le tecnologie digitali è un rapporto di radicale ignoranza. Se ci sono questioni socio-culturali che possono in parte spiegare questo stato di cose, è indubbio che la user experience dei prodotti mainstream (non parliamo di Linux) sia indirizzata verso una netta semplificazione e un fondamentale distacco rispetto alla gestione del sistema. Le scatole nere non sono solo quelle dei grandi algoritmi ma anche quelle che abbiamo nelle nostre tasche: la standardizzazione attraversa il digitale a tutti i suoi livelli. Le interfacce richiedono un profondo ripensamento perché in quanto configurazioni relazionali e reattive, possono causare ancora più danni di un oggetto ‘statico’ mal progettato:

“Sia i designer emergenti che quelli affermati devono trovare soluzioni per i problemi di privacy con cui si confrontano. Ci auguriamo che le violazioni della privacy siano un problema di design, ma spesso i designer sono meri esecutori di decisioni strategiche prese ben prima di essere impiegati”

L’industria creative nasconde meri interessi economici e discutibili alleanze politiche. Il sogno di conoscenza libera di Google è diventato l’incubo del capitalismo della sorveglianza. La credibilità etica del mondo color pastello della Silicon Valley è sotto zero. È tempo che il design diventi un’impresa collettiva per progettare e realizzare gli strumenti di un futuro migliore. Un esempio di design critico può essere Privacy Possum, componente aggiuntivo per i browser di navigazione, che impedisce agli utenti di essere tracciati dalla maggior parte dei cookies. Perché non pensare a una rete di collettivi contro la sorveglianza digitale? O a indossare abiti che impediscano il riconoscimento facciale? 

Speculare un nuovo design


Ivan Illich negli anni 70 chiamava tools for conviviality gli strumenti che rendevano gli uomini più liberi, autonomi e realizzati invece che divisi in padroni e schiavi. Opporre alla produzione in serie una disseminazione tecnologica che incrementa le abilità degli individui e stimolasse il loro desiderio di comunità.

Esiste una tradizione di design radicale, anche nel nostro paese, che da decenni propone una torsione redistributiva e popolare della disciplina. Ci sembra che Enzo Mari, visionario designer piemontese recentemente scomparso, avesse inquadrato la questione in maniera adatta anche alla società digitale di oggi:
Com’è possibile attuare il decondizionamento della forma in quanto valore e non in quanto strettamente corrispondente ai contenuti? L’unico modo che io conosca in quanto fa parte della mia realtà è che ciò è possibile quando la riflessione critica è basata sulla pratica del lavoro, quindi il modo dovrebbe essere quello di coinvolgere l’utilizzatore di un bene di consumo nella sua azione e nella realizzazione dell’oggetto progettato.

Redistribuzione delle conoscenze, partecipazione nella progettazione, trasparenza nei principi: tre slogan per il disvelamento degli arcani della società digitali. L’unico riscatto possibile per la falsa coscienza del designer passa attraverso il tradimento della mega macchina tecnologica a cui hanno contribuito per 40 anni: ‹In effetti, a meno che i progettisti non tradiscano il sistema che hanno contribuito a costruire, l’idea che possano essere evocate delle alternative non è altro che pura fantasia›.

Il tradimento dei designer è prefigurato anche da Emanuele Quinz, professore all’Université Paris 8, nel suo nuovo volume Contro l’oggetto (Quodlibet). In una recente intervista al Tascabile, Quinz chiarisce come la ribellione contro l’oggetto sia anche una ribellione contro il design. Ettore Sottass, un altro designer radicale del ’900, già parlava di Controdesign nel 1983:

“Il cosiddetto movimento del Contro Design sostiene l’idea che il design non finisce con l’oggetto messo in produzione dall’industria, ma inizia quando entra nelle nostre case, nelle nostre strade, città, cieli, corpi, anime. Il design inizia quando diventa rappresentazione visiva, fisica, sensoriale della metafora esistenziale sulla quale fondiamo le nostre vite”.

Insieme a quella che abbiamo chiamato funzione ‘disvelativa’, c’è chi ha previsto per il design un futuro speculativo. Il movimento dello Speculative Design, presentato nel testo Speculative Everything di Anthony Dunne e Fiona Raby, si impegna per un design che, mettendo in discussione le logiche capitalistiche, patriarcali o razziste, possa immaginare e definire futuri desiderabili. In questo nuovo frame, in questo design reincantato, la progettazione non riguarda solamente l’artefatto che vedrà la luce quanto più un intero contesto sociale e antropologico: per quale tipo di persona viene progettato un tale prodotto? In quale tipo di realtà sociale si colloca? Che tipo di enunciazioni causerà nella società? Il design come antropologia applicata: attraverso la problematizzazione di scenari futuri, possiamo elaborare i concetti e le pratiche su cui è meglio lavorare.

Lo Speculative Design unisce diverse discipline per arrivare a un’idea più ampia e inclusiva di progettazione, orientata al futuro e ai diversi scenari che potrebbero realizzarsi. In questo senso, il design così inteso sembra incarnare il ruolo che fu dell’architettura del ’900, quando avanguardie come il Bauhaus invitavano i progettisti a includere una prospettiva ‘a tutto campo’ nel loro lavoro. Il lavoro speculativo del design si compie in una prefigurazione intersoggettiva, un tentativo di lavorare intorno a un problema e ai suoi correlati: l’oggetto è il problema, che sollecita la necessità di un processo interpretativo. Lo Speculative Design indica una possibile direzione per il design che possa aiutarci a definire i caratteri del prodotto più arduo da inventare: il futuro.

Infine, un ultimo appunto. Come nota legittimamente Silvio Lorusso sul #4 di menelique magazine, non possiamo ignorare i legami del design critico con il complesso museale-artistico né minimizzare il rischio che la ‘svolta etica’ sia solo un modo per mascherare la sempre maggiore irrilevanza del design. Si tratta di critiche centrate che evidenziano la naiveté e i calcoli economici sottesi alle tendenze critiche nel design di oggi. Eppure, in qualche modo, non possiamo non correre il rischio: le sfide del presente e del futuro sono così urgenti e sistemiche da dover smuovere gli stessi principi cardine di una disciplina. Se, così facendo, il design perirà o diventerà irrilevante, forse ne sarà valsa la pena.