REINCANTAMENTO - Open source and work-in-progress meditation on magic and technology

REINCANTAMENTO


✦ Open source and work-in-progress meditation on magic and technology

Urla al Neon. Storia delle macchine dentro di noi.




Ciao, ben trovati al quindicesimo episodio di Filosofia dal Futuro! Parliamo di Neon Screams, nuovo volume di Repeater Books, che racconta il ritorno di una musica futuribile attraverso diversi generi, tra cui la Trap. Qui potete trovare una playlist di Alessandro ispirata al libro, per accompagnare la vostra lettura.



“Ti avevano detto che il futuro era finito… mentivano.”
Frontespizio di Neon Screams

Inizia tutto con la Retromania. È il 2009, il mercato è appena crollato, le piazze del Maghreb iniziano a scaldarsi e la musica sembra uguale a dieci, persino venti anni prima. L’arci-nota tesi del critico musicale inglese Simon Reynolds ha caratterizzato un’epoca, definendo in termini di nostalgia, di recupero del passato e di pastiche lo stile di generi musicali come l’indie o la vaporwave. Eppure, non si può congelare il futuro per sempre. Si è cercato di recuperare la carica utopistica della musica elettronica, di elaborare discografie accelerazioniste e musiche hi-tech. Ma forse non stavamo guardando nel luogo giusto. Almeno, questo è quello che ci suggerisce Neon Screams: How Drill, Trap and Bashment Made Music New Again, esordio di Kit Mackintosh, giovane giornalista musicale e batterista londinese.

Come indica il titolo, Neon Screams esplora i territori della musica black e urban attraverso diversi sottogeneri, più o meno noti: in particolare la Trap, la Drill e la musica Bashment (la versione street e contemporanea della dancehall). La tesi al cuore del volume è che questi sottogeneri abbiano creato qualcosa di nuovo, ri-attivando quella corsa verso il futuro che si era fermata ai tempi della Retromania e lo abbiano fatto attraverso il medium fondamentale della voce. Mackintosh parla di una psichedelia vocale propria di artisti come Vibyz Kartel, Future, Young Thug e Tommy Lee Sparta. La psichedelia vocale è:
"È l'omni-genere all'epicentro della nostra nuova mitologia musicale, dalla Giamaica all'Africa all'America."

La psichedelia vocale è una caratteristica comune alla trap, la nuova dancehall e la drill, è un’attitudine mutante al microfono, la ricerca di un calore sperimentale e post-umano che recupera quella vena mutante e disturbante che è propria di ogni musica davvero nuova, dal rock psichedelico nei ‘60 alla jungle dei ‘90. Il vettore di innovazione si muove dalla strumentale alla voce, portando ad un cambio di paradigma rispetto allo sperimentalismo della musica elettronica.

Questo ‘ritorno del futuro’ inizia in Jamaica verso la fine degli anni 2000. All’epoca, il panorama dancehall è dominato dalla faida tra Mavado e Vybz Kartel, due giganti del genere. Questo scontro simboleggia due tensioni interne al genere: se da una parte, Mavado rappresenta la pulsione umana della dancehall, la tensione verso il soul e l’r’n’b; dall’altra parte c’è Kartel: l'antieroe della dancehall per eccellenza, l’iconoclasta tamarro che porta la violenza, la morte e il sesso sfrenato nel cuore dello One Love giamaicano. Egli cede per primo alle sirene dell’auto-tune e lo usa con una inedita furia nei vari dissing al collega. Eppure, Mackintosh non ci parla di un classico scontro analogico vs. digitale ma, con la teoria della psichedelia vocale, fa esplodere la dicotomia. Vybz Kartel - così come gli altri artisti di questo omni-genere - usa lo strumento tecnico per moltiplicare la forza delle sue emozioni, dando vita a quelli che l’autore chiama iper sentimenti elettrificati. Così, inizia a prendere vita una via espressiva all’autotune, in cui il medium diventa messaggio, un catalizzatore sonico dell’interiorità artistica che proietta l’ascoltatore in uno stato confusionario e di sensibilità viscerale. Se siete curiosi alla storia di questa leggenda giamaicana, qui potete sentire un mix di Mackintosh che esplora la carriera di Vybz Kartel.


           Copertina di Pon di Gaza 2.0 di Vybz Kartel, dove il nostro si rappresenta come un idolo d’oro.


La psichedelia vocale è dunque un omni-genere, una sovra-categoria che rappresenta un punto di non ritorno raggiunto da diversi generi negli ultimi 15 anni. Come per la dancehall, lo stesso avviene per il rap. Secondo l’autore intorno alla metà degli anni ‘10, emerge un uso nuovo dell’autotune che si presenta come un progressivo rifiuto della classica espressività del rap, dell’eloquio delle barre e delle rime. Questo nuovo approccio liquefatto al microfono trasforma la voce in un’arma sonica, in uno strumento basato sulla produzione di suoni nuovi, invece che parole e rime. Questa linea evolutiva mutante parte con gli Outkast, si evolve tramite i deliri tossici di Lil Wayne e Gucci Mane, il contributo cruciale di Kanye West in 808’s and heartbreak, e arriva ai vari Future, Young Thug e Playboi Carti. A questo punto, il rap non è più rap.


Confrontate, dice l’autore, il modo di fare musica di Jay-Z e Future nel brano del 2017 ‘I Got the Keys’. L’MC newyorchese sta ancora facendo rap, il mostro di Atlanta si muove in un altro scenario, la sua voce crea suoni, non esprime più senso. Anche a livello iconografico, ci troviamo da un’altra parte rispetto agli scenari gangster e mascolini che avevano caratterizzato il rap e la trap negli anni ‘00. E’ tutto liquefatto, inacidito, improvvisamente scivoloso e ibrido. Serpenti, slime e meduse invadono le copertine e i nomi delle etichette, l’immaginario si fa anfibio e l’idea di drip si fa letterale, lo stile diventa qualcosa che sgocciola dagli artisti.



Slime, serpenti e creature mitologiche: iconografie delle copertine trap


 ‘For my Peopledi Young Thug e Duke è una samba subacquea dove le voci dei due artisti si rincorrono in una gara di frequenze deviate. ‘Baby What’s Wrong With You’ di Chief Keef - per quanto ancora influenzata dal suono di Lex Luger - ci presenta uno strano panorama fatato in cui le liriche incomprensibili del rapper di Chicago, distorte ulteriormente da un autotune avvolgente, si alternano con sospiri e strani versi.

Il ritornello di Maria I’m Drunkvede una fusione eccitata delle voci di Young thug e Travis Scott mentre ‘Running Bands’ di Lil Gotit e Lil Keed è un botta e risposta tra due alieni, la sintesi di un nuovo linguaggio. “È una combinazione di Auto-Tune e pitch shifting che fa suonare Lil Gotit come se la sua faccia fosse orribilmente sfigurata.” ci dice Mackintosh. L’elaborazione digitale del suono viene usata in combinazione con il desiderio di portare la voce verso nuove altezze, sia verso un’euforia solare, una felicità chimica collegata al consumo di MDMA sia verso il basso, verso una lenta agonia, un eterno come-down sedato dall’uso massiccio di Xanax, Percocet e codeina.


La versione deepfake di Travis Scott

In questo senso, seguendo il pensiero di Paul Preciado, possiamo interpretare l’abuso di droghe come un altro innesto tecnologico nei corpi degli artisti, che, a fianco all’autotune e ad altre tecniche di manipolazione della voce, finisce per forgiare nuovi tecno-mostri. 

Il libro di Mackintosh è anche uno studio di questo spostamento verso l’interno dell’esternalità tecnologica. Se, nel ‘900, sognavamo la tecnologia come qualcosa di monumentale e di esterno a noi (mega robot, razzi spaziali), come una serie di strumenti che estendono il sé o come “una forza della natura da sfruttare”, oggi ci muoviamo in un panorama totalmente diverso. Man mano che l’UFO che abbiamo chiamato società digitale diventava reale, abbiamo modificato la scala delle nostre fantasie. Tutto è diventato così normale, così spontaneo che ci dimentichiamo quasi di stare interagendo con la macchina. Non è il robot che ci vuole soggiogare, siamo noi dipendenti dai nostri dispositivi. Non siamo pericolosi Robocop, devastanti ibridi cyborg ma i soliti, fragili umani con un occhio costantemente puntato alle notifiche push nella nostra tasca. E’ una prospettiva rassicurante e inquietante allo stesso tempo: i nostri peggiori incubi non si sono avverati, eppure, forse, qualcosa di altrettanto imprevedibile ha preso vita. Invece che in Guerre Stellari, siamo finiti ad abitare in una nuova era oscura, descritta così dall’autore di Neon Screams:

“C'è il cambiamento climatico, c'è la fantomatica intangibilità dell'esistenza digitale, c'è la post-verità, c'è il tipo di superstizione tecnologica che si ha con l'ISIS e QAnon (che usano la tecnologia d'avanguardia per spacciare ogni sorta di delirio da Medioevo sugli adoratori di Satana e simili) e poi c'è la morfosi radicale che si ha nella creazione di avatar nei videogiochi e nei Deep Fake e quelle app che trasformano e rimodellano la tua faccia in ogni sorta di modi dementi…”

In questa buffa e drammatica spirale in cui siamo scivolati, le tecnologie sono veri dispositivi del sé, straordinariamente aliene e umane allo stesso tempo, come l’uso dell’autotune raccontato in Neon Screams ci dimostra. Il punto di svolta della psichedelia vocale che racconta Mackintosh, è la reazione di varie culture musicali alla predominanza dell’evento farmacologico, come definisce il filosofo francese Bernard Stiegler, l’enorme questione tecnica della nostra epoca. Farmacologico perché, secondo una nota interpretazione, le tecnologie sarebbero definibili come pharmaka, artefatti sia velenosi che medicinali. Lo specchio delle sottoculture musicali urbane si è rivelato un terreno di rappresentazione fertile di questo sconvolgimento epocale.

Spillover digitale: estetica della Drill e demoni giamaicani



Nel filone genetico della psichedelia vocale, Mackintosh inserisce anche la UK Drill, sotto-genere del rap britannico che ha avuto il suo apice di fama tra il 2015 e il 2018. La UK drill nasce da un humus globale e digitale che riflette la natura della contemporaneità: il nome deriva dalle assonanze estetiche e sociologiche con la Chicago drill, rap tipico della Windy City, esploso a cavallo degli anni ‘10 e caratterizzato da un crudo realismo. La Chicago Drill ha influenzato enormemente l’immaginario degli artisti inglesi, l’approccio dyi ai video etc. Eppure, ritmicamente la UK drill si inserisce in quello che è stato definito hardcore continuum, ovvero il canone dei diversi generi elettronici comparsi nella scena rave londinese negli anni ‘90 (harcore, drum’n’bass, 2 step etc.). Inoltre, è interessante notare come la drill sia poi tornata sulle sponde americane dell’Atlantico, fiorendo nuovamente a partire dal 2018-19 a New York e rendendo famosi artisti come Pop Smoke e Fivio Foreign. Questa terza ondata drill ha definitivamente consacrato il genere a livello globale, che si è riprodotto viralmente in tutto il mondo, dal Ghana all’Australia, passando per l’Italia, la Russia e la Spagna (come il proliferare di questo genere di video dimostra).

Ma cosa c’è di nuovo nella Drill e perchè Mackintosh la inserisce nel filone della psichedelia vocale? A differenza dei generi citati finora, è evidente anche ad un primo ascolto che la Drill si caratterizzi per delle performance vocali più limitate e ristrette, per un utilizzo ‘classico’ del rap e un approccio realistico al racconto del reale. Eppure, proprio questo realismo di strada sembra incepparsi fino a diventare weird, caratterizzato da elementi grotteschi come una sorta di antenna collegata sulle frequenze della nuova età oscura. Il racconto Drill è intessuto in un presente futuristico, uno Zeitgeist cyberpunk dove convivono attivisti hacker come Anonymous (un simbolo che compare spesso nei video Drill) e jihadisti mediatici, che brandiscono machete e armi davanti alla telecamere, come fanno molte gang di Brixton o Kennington. L’immagine della violenza segue il vettore della riproducibilità tecnica: intorno agli artisti Drill, proliferano video e Instagram Stories di risse, rapine e guerre tra bande. L’internet straborda nella narrazione realista della Drill e così una figura spesso glorificata è quella dello scammer, il truffatore digitale, che riesce a fare soldi vendendo vestiti falsi online o clonando conti PayPal. Un rapper di Detroit, Teejayx6, ha costruito una carriera su questo archetipo, cantando di furti d’identità, VPN e Dark Web.

Il valore futuribile della Drill giace quindi nel suo comportamento come oggetto culturale, che è tipico della nostra epoca, così in bilico tra locale e globale, variegato ed omogeneo, egocentrico ed anonimo:

“La Drill, nel suo senso più ampio, non è un genere vero e proprio, è una posizione estetica. È un impulso a tornare alla realtà di strada documentaria in un decennio in cui il rap è diventato sempre più fantastico. Un test di Rorschach sonoro in cui le varie località leggono suoni completamente diversi. Chicago Drill e UK Drill non avevano molto in comune dal punto di vista sonoro, ma erano affini nei loro atteggiamenti e nella loro psicologia. In questo senso la Drill è darwiniana, non solo nella sua prospettiva di "sopravvivenza del più adatto", ma nel modo in cui assomiglia ad una forma di vita che si adatta e si evolve ad ambienti e circostanze mutevoli. La Chicago Drill era semplicemente l'antenato comune di queste diverse specie di suoni. La Drill di Brooklyn - contrariamente al suo nome specifico di quartiere - è nata da due culture transatlantiche che interagiscono online: Rapper americani che usano beat inglesi. A prima vista, questo tipo di globalizzazione delle idee guidata da Internet è preoccupante; non ci si può liberare della sensazione che alla fine porterà all'emergere di una monocultura globale monotona e omogeneizzata. C'è il timore che tutte le affascinanti sottoculture del mondo - in tutta la loro gloriosa particolarità - saranno completamente diluite quando saranno inghiottite e intrappolate in Internet, al punto che non si potrà più riconoscere una dall'altra. Fortunatamente la Drill ha dimostrato che l'inter-connettività globale può effettivamente avere un effetto rinvigorente sulla musica e su scene relativamente regionalizzate. Attraverso Internet, il drill ha attraversato il mondo, ma è stato completamente reimmaginato quando è entrato in contatto con persone diverse in luoghi diversi. La varietà dei generi di drill che sono emersi divergono l'uno dall'altro dal punto di vista sonoro, sociale e psicologico che ispirano. Sono informati dalle diverse sensibilità - gusti musicali, senso dell'umorismo - e circostanze che si trovano in tutto il mondo.”


Tommy Lee Sparta in tutto il suo inquietante splendore

Torniamo in Giamaica. L’ultimo anti-eroe del libro di Mackintosh è Tommy Lee Sparta, artista dancehall emerso all’inizio degli anni ‘10, e rappresenta l’apice demoniaco delle figure presenti nel volume. Tommy Lee auto-definisce il suo stile come Gothic Dancehall e nei suoi testi i riferimenti alla religione non mancano. Il vero demone dell’artista però è la cocaina, di cui fa uso abbondante e che compare sovente nei suoi video e testi, in opposizione alla cultura musicale del suo Paese, da sempre contraria al consumo della coca. Tommy Lee Sparta è l’incarnazione di una Giamaica sofferente e nella morsa della violenza, dove dal 2017 viene imposto lo stato di emergenza per affrontare il tasso di omicidi in aumento. Lo stesso Tommy Lee Sparta è stato di recente condannato a tre anni per possesso illegale di arma da fuoco. Nella sua musica, queste tensioni vengono esorcizzate attraverso una espressività vocale ad alta definizione.

“ll suono di Sparta è febbrile, diabolico e con la schiuma alla bocca. La sua produzione, che ha trasformato tutto il bashment nella seconda metà degli anni 2010, è come l'urlo macchinico del Dark Magus di Miles Davis, alimentato a cocaina e anfetamine, reimmaginato per il ventunesimo secolo autotunato.”

Una traccia come ‘Darkness Rise’ esplora un intero spettro sonoro attraverso l’autotune, realizzando una sorta di mutazione in goblin, con una voce stridula e a tratti fastidiosa, capace allo stesso tempo di incantare e stordire l’ascoltatore. In ‘Target’ (sulla cui copertina ritorna la maschera di Guy Fawkes), Sparta esplode in un caleidoscopio vocale in cui possiamo riconoscere tre o quattro personalità diverse.



Riconoscere il futuro


Neon Screams offre altre direzioni da esplorare: l’amore dell’autore per la dancehall trap, la sua esaltazione di Huncho Jack, album collaborativo tra Quavo dei Migos e Travis Scott, l’evoluzione che offre della teoria del Black Atlantic e altro ancora. Ma il vero punto di forza del libro, a parere di chi scrive, è che presenta una prospettiva non-Novecentesca sull’evoluzione musicale. Nell’intervista che chiude il volume, l’autore suggerisce un’idea semplice, quasi scontata ma di grande impatto: la storia della musica del ‘900, per come la conosciamo attraverso la critica, è una storia che segue la vita della generazione dei cosiddetti boomer; c’è un effetto di retro-stasi sulla descrizione della cultura e sulla teoria della morte del futuro.

“Penso anche che parte di esso derivi dall'età delle persone che propongono queste idee del futuro che sono in declino. Ho una teoria personale che la nostra storia culturale del dopoguerra sia stata in gran parte scritta dai baby boomer e come tale le nostre narrazioni sugli anni Cinquanta fino ad oggi si adattano molto bene a come loro hanno vissuto il mondo nel corso della loro vita. Le nostre idee degli anni '50 e degli anni '60 pre-hippy (quando questi scrittori erano bambini) sono infantilizzate; sono in gran parte rappresentati come molto sani e ruotanti attorno alla famiglia nucleare. Poi questi commentatori culturali sono diventati adolescenti tra l'era hippy e il punk, quindi associamo tutto quel periodo alla ribellione, al cinismo verso l'autorità e alla scoperta del sesso e della droga. Noi caricaturiamo gli anni '80 - quando questi scrittori avevano vent'anni o trent'anni e forse facevano i loro primi soldi veri - in termini di yuppies e consumismo”

Su questo punto, la mia empatia con l’autore è assoluta: forse perché siamo praticamente coetanei e appassionati dello stesso genere, perché anche io ho passato ore e ore della mia vita ad ascoltare mixtape non ufficiali di rapper autotunnati, sviluppando progressivamente la convinzione dell’effettiva novità di ciò che stavo ascoltando. Eppure, nelle conversazioni con persone più grandi di me e nel parere di diversi importanti critici, non ho mai visto una vera comprensione di queste voci nuove e un freddo scetticismo per l’immaginario in cui si muovevano. Dovremo ammettere che le nostre narrazioni culturali sono influenzate dal bias anagrafico e così le narrazioni sulla fine del futuro. A diverse latitudini poi, il futuro è appena cominciato. Le urla al neon raccontate da Mackintosh sono un passo oltre le luci al neon che cantavano i Kratfwerk nel 1978, come ci suggerisce Reynolds nella sua prefazione. Se riusciamo ad accettare questo, se realizziamo quanto siamo radicalmente ibridati con la tecnologia, forse potremo iniziare a riconoscere il futuro quando lo vediamo intorno a noi.