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Archeologia Futura



In occasione dell'invito da parte del Petrarubra Festival 2021 (30/05 - 14/06), Speculum! presenta Archeologia Futura, un video-essay dalla durata di 50 minuti.Archeologia futura affronta l'Epoca dell'Antropocene e la catastrofe ecologica in atto attraverso un’esplorazione finzionale e teorica del destino del pianeta, saltando tra distopia e utopia, collasso e speranza.

Di seguito, trovate il testo originale di Archeologia Futura.

10.000 anni dopo la fine della storia.

I sopravvissuti, a seguito della catastrofe ecologica, sono emigrati su un nuovo pianeta, Specula.

Un gruppo di ricercatori torna sul pianeta Terra per ricostruirne la storia.



Viviamo nei pressi della Discarica. La nostra casa è il Museo.

La discarica - la chiamiamo così in gergo tecnico - è in realtà un interminabile spazio dove rimane il pattume di una civiltà estinta da diecimila anni. Un sito archeologico, sarebbe corretto definirlo così.

Le civiltà avanzate non sono parsimoniose, e ciò che rimane di loro è un infinito resto, l'insieme dello scarto che abita la discarica; ciò che permane dopo la fine della storia.

Forse il colmo per una specie intelligente è proprio questo: annaspare fino alla morte nei propri rifiuti. Così, la discarica è piena di ogni cosa: manufatti di ogni genere e forma.

Ricostruire la storia di una civiltà finita è un compito che solleva questioni fondamentali sul metodo che adottiamo in archeologia. Cosa narrare di un mondo senza fatti? O, in altre parole, è possibile in principio qualsiasi forma di narrazione?

I pochi documenti che abbiamo ereditato da quella cultura perduta che i nostri antenati si sono lasciati alle spalle riguardano nozioni critiche come:
Antropocene, Sesta Estinzione di Massa, Capitalismo, Surriscaldamento Globale.


Le cronache in merito al destino a cui il nostro vecchio pianeta è tristemente andato incontro sono molto vaghe e riguardano scenari poco comprensibili. Abbiamo pensato di ritornare adesso per interpretarne la storia a partire dalle rovine e dagli scarti. Per riportare su Specula un’idea del passato.

Sempre in allerta è il timore che le storie che ci raccontiamo sugli antichi siano finzioni letterarie e nient'altro. L'archeologia, in questo senso, è una pratica che affronta le questioni fondazionali dell'ontologia e della metafisica. La domanda sull'essere, cioè  riguardo a ciò che esiste e al modo in cui esiste, viene declinata al passato; cosa c'era e in che modo diventa la domanda sull'essere-stato.

Da quando la discarica è stata scoperta, le ricerche non si sono mai arrestate. Gran parte di ciò che vi si trova è nient’altro che spazzatura e, per via del tanfo maleodorante che si leva, gli archeologi lavorano agli scavi indossando tute da netturbini. Si vedono spesso al lavoro con grandi vanghe. Sollevano spregevoli quantità di plastica, un materiale inestinguibile che rappresenta la maggior parte delle tracce lasciate dalla specie umana sulla terra.

Proprio per la natura plastica di questa produzione, molti dei manufatti hanno subito una qualche forma di corruzione e si presentano ora deformi.

Ricordiamo perfettamente il giorno in cui abbiamo ritrovato, in quella che all’apparenza sembrerebbe una fossa comune, riproduzioni fedeli di umani in plastica. Non riportano alcuna traccia di colore, né alcuna espressione facciale, solo la curvatura dei muscoli del viso in evidenza, degli occhi solo lo scavo delle orbite. Alcuni riportano seni prominenti, altri meno; i genitali sono ambigui in entrambi i casi, appaiono mutili. Ne abbiamo scelto due esemplari tra quelli in condizioni migliori, gli altri li abbiamo relegati all’area degli oggetti che abbiamo deciso di negare dalla nostra archeologia.

In altri casi la prassi vorrebbe che tutto venisse conservato, perché ogni oggetto costituisce una traccia e potrebbe restituire chiarezza alla narrazione che vogliamo intrecciare. Tuttavia, nelle circostanze che ci troviamo a trattare, la materia è decisamente sovrabbondante e parla molto poco. Uno dei criteri determinanti per la nostra pratica di negazione è l’impegno al principio degli indiscernibili: in questo mondo esistono troppi duplicati, serialità inutili e di cattiva fattura – così, se mille manufatti sono esattamente identici tra loro, ne riporteremo uno solo.

Dopotutto, il Museo possiede spazi vasti, ma non abbastanza da ospitare ogni traccia. E se non si escludesse alcuno oggetto sorgerebbe un paradosso: se gli oggetti che componevano l’insieme della discarica andassero a comporre d’un tratto l’insieme degli oggetti nel museo, allora non ci sarebbe molta differenza tra la discarica e il museo stesso. In altre parole, l’identità della discarica sarebbe divenuta quella del museo, e così il museo sarebbe diventato nient’altro che la discarica.

“Speculare”, nel suo senso etimologico, significa “guardarsi intorno”: la specola è in prima istanza il luogo dal quale l’osservazione è privilegiata, quel luogo da cui si riesce a vedere tutto. Specola è infatti anche un antico nome per indicare gli osservatori astronomici: quale miglior esempio dello sguardo di chi esplora, cerca, brama; quello sguardo alla ricerca di altri pianeti, di altre forme di vita, di altri sguardi?

E l’umanità scruta il cosmo per capire il proprio posto nell’universo, perché quod est superius est sicut quod inferius. D’altra parte, è dall’osservazione del cosmo che nasce la filosofia – la prima domanda sull’arché, sulla provenienza di tutto ciò che esiste. Allo stesso modo, lo speculum è sia la lente del telescopio che esplora nuovi orizzonti – come affermava Tsiolkovsky «la Terra è la culla della mente, ma non si può vivere nella culla per sempre» –, ma anche lo specchio tramite cui guardiamo noi stessi. Non a caso quel tipo di specchio che restituisce allo sguardo la figura intera è chiamato psiche: per guardare dentro di noi, dobbiamo volgere lo sguardo all’esterno. Lo specchio è dunque uno dei simboli preferiti dalla filosofia: questa è infatti riflessione del mondo, in entrambi i sensi del genitivo.

L’adagio vuole che sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo; allora la pratica di immaginare il futuro è essenzialmente rivoluzionaria: dobbiamo immaginare di più, immaginare meglio. Il classico paradosso dei viaggi nel tempo nell’immaginario comune vuole che alterare un minimo dettaglio nel passato può distruggere il presente. Ma quanti di noi credono che alterare un minimo dettaglio nel presente possa cambiare radicalmente il futuro?

La rivelazione ottimista consiste nel capire che non c’è un modo in cui le cose devono andare, esistono solo i vari percorsi che gli eventi possono seguire, sta a noi agire per determinare il flusso, o ne saremo determinati.

Se hackerare il cosmo significa riscriverne le regole, e ogni essere, ogni agentività altri non è che un hacker, allora bisogna attivamente negoziare con il cosmo per non rimanere stagnanti nel flusso. Così come il pessimista non è l’addolorato, l’ottimista non è il gioioso, piuttosto è chi agisce con speranza, un tipo di speranza pratica che si risolve e giustifica l’azione. È questo l’esercizio speculativo che abbiamo scelto di praticare tutti insieme.

Una famosa citazione di Mark Fisher afferma che una politica emancipatrice deve sempre distruggere l’apparenza di un ordine naturale, deve rivelare che ciò che viene presentato come necessario e inevitabile è una mera contingenza, così come deve far sembrare raggiungibile ciò che prima era ritenuto impossibile. La potenza di immaginare un futuro vero, uno scenario radicalmente altro è proprio questa. Nelle parole di Netti, la protagonista del romanzo Stella Rossa di Aleksandr Bogdanov: «Ma per intraprendere la lotta dobbiamo conoscere il futuro. È per questo motivo che ti trovi qui».